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23 gennaio 2012

Vincenzo Consolo | Scilla e Cariddi

di Vincenzo Consolo*

   Ora mi pare d'essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico e affisso a un'eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l'agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita, di distaccarmi dal reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi bei nomi dei villaggi, per cui mi muovo tra la mia e la casa dei miei figli. Forse pel mio alzarmi presto, estate e inverno, sereno o brutto tempo, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l'alba, il sole che fuga infine l'ombre, i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, questo Stretto solcato d'ogni traghetto e nave, d'ogni barca e scafo, sfiorato d'ogni vento, uccello, fragoroso d'ogni rombo, sirena, urlo. Inciso nel suo azzurro, nel luglio, nell'agosto, dalle linee nere, dai ferri degli altissimi tralicci, alti quanto quei delle campate ch'oscillano sul mare, dal Faro a Scilla, che sono ormai l'antenne verticali e quelle orizzontali, ritte come spade sui musi delle prore, delle feluche odierne chiamate passerelle. Ferme, in attesa, ciascuna alla sua posta, o erranti, rapide e rombanti, alla cattura del povero animale.

   Viene il momento allora, per i vocii e i frastuoni dei motori, sul mare (barbagliano parabrezza d'auto, di camion che lontano corrono lungo i tornanti della costa calabra, sopra Gallico, Catona; barbagliano vetri e lamiere dei grandi gabbiani, degli aerei aliscafi), sulla strada alle mie spalle, che corre, tra le case e il mare, giù verso Messina, il porto, fino a Gazzi, Mili, Galati, su verso Ganzirri, Rasocolmo, San Saba, viene il momento di rintanarmi.

   Mi metto allora a lavorare ai modelli in legno dello spada, azzurro e argento, tonno, alalonga, aguglie, ai modelli dei lontri veri, delle feluche antiche, a riparare reti e ritessere ricordi, miei, della mia vita, qui, sopra questo breve nastro di mare, quest'infinito oceano di fatti, d'avventure, o per il mondo.

   Sono nato (e chi lo sa più quando?) a Torre Faro, da rinomato padrone lanzatore, padre Stellario Alessi, terzo di cinque figli. I maschi, Nicola, Saro e io, di nome (solo di nome) Placido, ancora quasi lattanti, non lasciavamo in casa a nostra madre forchetta per mangiare, che legavamo in cima a una canna a mo' di fiocina per infilzare polipi bollaci costardelle, ogni pesce che per ventura capitava a tiro del nostro occhio e braccio. Era l'istinto che ci portava verso il mestiere, come aveva portato nostro padre, suo padre indietro, ci portava verso il destino del mare, dello Stretto, del pesce spada, sopra feluche e lontri, ci portava a lance, palamidare, palangresi.

   Nicola morì soldato e Saro nel suo letto, di spagnola. E io non mi ricordo più quando salii sul lontra e lanciai l'arpione la prima volta. Ho solo negli occhi la vista della draffinera, di quelle preziose del ferraro mastro Nino, che s'inchioda nella pelle lucida, colore dell'acciaio, nel cuore della carne, del pesce che s'impenna, che s'inarca, alta la spada sopra il fior dell'acqua, e s'inabissa, sferzando forte con la luna della coda, rapido sparendo con tutto il filo della sàgola, il filo del sangue che disegna la sua strada. Strada che finisce nella morte. Ho negli occhi la ciurma che lo tira in barca, grande, pesante, inghiaccato alla coda, la bocca aperta, la spada in basso, come un cavaliere che ha perso la battaglia; negli occhi, l'occhio suo tondo e fisso, che guarda oltre, oltre noi, il mare, oltre la vita. Ho nell'orecchio le voci di mio padre, i suoi comandi, le voci della ciurma: «Buittu, viva san Marcu binidittu!». Dopo la femmina, fu la volta del maschio, che s'aggirava, pesante e rassegnato, come in offerta, torno alla barca, a tiro del mio ferro.

   Da allora, ho negli occhi e nel ricordo una schiera infinita di pesci indraffinati, di spade a pezzi succhiate nel midollo, di teste, di pinne, di code resecate. 

   Mio padre, vecchio e privo d'altri maschi, privo ormai di vista e resistenza, fu costretto a scender dall'antenna, ad ingaggiare, per la stagione che arrivava, uno di Calabria, dove sono gli antennieri più acuti dello Stretto, pur se i comandi, in vista dello spada, li fanno in lingua tutta loro. «Appà, maccà, palè, ti fò...» urlano. 

   Il giovane, Pietro Iannì, che sempre da caruso era stato guida sulle postazioni delle rocche alte di Scilla, di Palmi, di Bagnara, sposò poi Assunta, mia sorella, e se ne tornò al paese. Fu per il loro primo figlio, pel battesimo, ch'io conobbi quella che divenne poi la mia sposa. Figlia di padrone di barche, padre Séstito, era picciotta bella e assennata. Muta e travagliante. Ma non di fora, come le bagnarote libere e spartane che vanno a commerciare pesce, intrallazzare sale, avanti e indietro sempre sui traghetti, ma, di casa, e al più sulla spiaggia, tra le barche dei suoi. Bruna, il fazzoletto in testa, gli occhi sfuggenti che spiavan di traverso, stretta alla vita, i fianchi dentro quel maremoto di pieghe della gonna, il busto che sbocciava in sopra ardito e snello: così m'apparve in prima a quella festa. Il matrimonio, con tutti gli accordi e i sacramenti, si fece nella chiesa bella del Carmelo, e il trattamento, nella casa capace della sposa. Fu quel giorno che mio padre, in presenza dei Séstito, pronunciò il testamento, disse che le barche, gli attrezzi per la pesca, tutto passava a me, ch'io sarei stato da quel giorno il padrone nuovo.

   Poco durò lo spasso per le nozze. Me la portai, Concetta, la mia sposa, nella casa nostra, lì vicino alla chiesa, davanti al monumento con l'angelo di marmo a cui la guerra tagliò di netto un'ala, in faccia alle barche nostre, al mare, alla rocca di Scilla dall'altra parte. Le feci conoscere Messina, il porto, con tutta la confusione dei bastimenti fermi, delle navi in movimento, dei ferribotti, la Madonna lì alla punta della falce, alta sopra la colonna, sopra il forte del Salvatore; il Duomo, dove restò incantata, a mezzogiorno, per il campanile e l'orologio, ch'è una delle meraviglie di questo nostro mondo: suonano le campane, canta il Gallo, rugge il Leone, la Colomba vola, passa il Giovane, il Vecchio, passa la Morte con la falce; sorge la chiesa di Montalto, passa l'Angelo, San Paolo, torna l'Ambasceria da Gerusalemme, la Madonna benedice... Me la portai per i viali, a Cristo Re, a Dinnammare, su fino a Camaro, a Ritiro, ai colli di San Rizzo. Ma lei, lei, sempre pronta, sottomessa, era però come restasse sempre straniata, come legata con la mente alla terra di là, oltre lo Stretto. E più mi dava figli (tre volte partorì in cinque anni) più sembrava crescere in lei il silenzio e lo scontento. C'era fra noi, che dire? come una distanza, uno stretto, una Scilla e Cariddi fra cui non si poteva navigare. Eppure, santissima Madonna!, la trattavo con ogni cura e affetto, l'adornavo di vesti, di ori; la portavo alla festa di Ganzirri, alla processione di San Nicola sul Pantano, alla trattoria di don Michele; e a Messina, alla festa dell' Assunta a Mezzagosto. Una volta tirai anch'io per voto (voto che si capisce quale fosse, d'avere finalmente quella donna, per cui potevo morire, indraffinato come un pescespada), tirai per la corda la gran Vara, scalzo, senza camicia, e lei accanto a me, sciolti i capelli, certo per un voto suo segreto che mai mi rivelò. 

   Un luglio, ad apertura della pesca, per l'ammalarsi dell'antenniere mio, fu lei a suggerirmi, come per caso, quel nome d'un parente suo lontano, Polistena Rocco, rinomato fra Bagnara e Scilla. E arrivò quest'uomo snello, alto, d'una chioma riccia come quella del gigante Grifone sul cavallo. Tanto che là, in cima, stava per tutte l'ore senza un cappello, solo riparo quel suo casco nero di chiocciole o di cozze. Lo vidi e l'odiai. Non so perché. Forse per il suo portamento, il suo sorriso, la fama per cui ognuno rideva e mormorava, d'una sua dote fuori d'ordinario, la fama, scapolo com'era all'età sua, di grande ladro, d'amatore tenace e senza cuore. Mi parve che Concetta, al suo arrivare, mi parve che appena appena mutasse nell'umore, nel modo suo di fare; parlava più frequente, con me, coi figli, sorrideva finanche qualche volta. L'odiai. E quando alzavo il braccio per colpire il pesce, che lucido e dritto guizzava sotto l'acqua con la spada, mi sembrava di colpire, di piantare in quell'uomo la draffinera. E il mare lo vedevo tutto rosso, poi argento, poi blu, poi nero come la notte. 

   Pel tempo che durò la sua presenza al Faro (due, tre estati, non ricordo), pur senza un segno, un fatto, un motivo vero, cresceva sempre più la mia pazzia, l'ossessione dell'inganno. E sì che non eravamo più di primo pelo, né io né quello né Concetta. Durò fino a quell'anno in cui cominciò il grande mutamento, l'anno vale a dire in cui passarono in disuso remi, lo ntri, feluche, si mutarono le barche in passerelle. E ci vollero quindi, per i motori, l'antenne, tanti soldi. Decisi per questo (ma forse fu una scusa) di sbarcare, disarmare tutto, licenziar la ciurma, il calabrese. 

   Per mantenere la famiglia m'imbarcai come marinaio, io padrone, sopra il Luigi Rizzo, il vaporetto che collegava Milazzo a Lipari, Vulcano ... Fuori dal porto, costeggiando la penisola del Capo, oltre il Castello, davanti alla casa di quell'ammiraglio che nella Grande Guerra era stato eroe, assieme a un poeta, per una impresa ardita contro il nemico, il battello che portava il suo nome, lanciava il fischio di saluto. Allora qualcuno, una serva, un parente, rispondeva sventolando dal terrazzo un panno bianco. Il battello d'estate era sempre pieno di turisti: scoprii così il mondo. Mi feci, per cancellar l'amore per Concetta, gran traffichiere, facile predatore di straniere. D'inverno, nelle soste a Lipari sotto il Monastero, nelle soste forzate per il brutto tempo, m'intrecciai con una di là, ché sono, le donne di quell'isola, svelte, calamitose, seducenti. 

   Tornavo al Faro, a casa, a ogni turno di riposo, tornavo per le feste. E lei, Concetta, era sempre chiusa nel suo mondo, sempre indifferente. In più ora sembrava solo presa dai figli, ch'erano ormai cresciuti e le davano maggior lavoro. 

   Il colmo della sua freddezza nei confronti miei lo provai un'estate. Forse per sfida o forse nell'intento di smuoverla allo scontro, portai una straniera fino a Torre Faro, fino alla punta estrema del Peloro, all'incrocio dei mari, dove la rema forma i gorghi, quelli che la tedesca chiamava del mostro di Cariddi. Passammo davanti alla mia casa. Lei ci vide, da dietro la finestra, ed ebbe come un riso di sprezzo, di compatimento. 

   Dopo quel fatto, decisi di sbarcare, di tornare al mio mestiere della pesca. Anch'io, come gli altri, misi da parte remi e lontri, comprai un motore per la mia feluca e cominciai a correre, a inseguire lo spada sullo Stretto. Avevo preso un'antenniere nuovo di Fiumara Guardia, e il mio braccio di vecchio lanzatore era tornato ad essere forte e preciso come nel passato. Fu in uno di questi erraggi, nell'inseguire il pesce dalla posta mia, che mi scontrai con una passerella che per abuso aveva catturato il pescespada. Lì, sull'antenna della feluca pirata, rividi allora dopo tanto tempo il calabrese. La questione della preda fu portata davanti al Consiglio, che sentenziò naturalmente a mio favore. Ma al Polistena, che seppi era il padrone della passerella, feci sapere che il giudizio per me, oltre il Consiglio, era nel riparar lo sfregio col duello: che si facesse trovare sulla spiaggia, proprio sotto il Faro. Fu lì puntuale, come convenuto. Stavamo appressandoci, quando, a un passo l'uno dall'altro, cominciarono a fischiare sopra le nostre teste le palle dei fucili. Eravamo proprio sotto il campo del tiro al piattello. Ci buttammo per terra, la faccia contro la rena. E restammo così, impediti a muoverei, non so per quanto tempo. Ci spiavamo con la coda dell'occhio. Poi improvviso fu lui a ridere per primo, a ridere forte, e trascinò me nella risata, mentre i piatti in aria venivano dai colpi sbriciolati. Dopo, quando ci fu il silenzio, ed era quasi l'imbrunire, ci alzammo, ci guardammo in faccia. Fu lui, Rocco, a tendermi la mano. Non lo vidi più. Sparì dalla mia vista e dalla mia vita. Anche perché sparì in uno con Concetta tutto il rancore mio e la gelosia. 

   Mi disse lei, là all'ospedale Margherita, affossata nel letto, gli occhi negli occhi, la mano serrata nella mia: «Ah, Placido, come si può passare una vita senza capire!» 

   Da allora, quando mi lasciò la mia Concetta, sentii che cominciavo a farmi vecchio. Donai tutto, passerella e reti ai miei figli, lasciai il Faro e venni qui ad abitare in una nuova casa. 

   Ora mi pare d'essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come un trapassato... Ma vivo nei ricordi. E vivo finché ho gli occhi nella beata contemplazione dello Stretto, di questo breve mare, di questo oceano grande come la vita, come l'esistenza.

23 gennaio 2012
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Note:
* Racconto tratto dal libro Vincenzo Consolo, Neró Metallicó, Il melangolo, Genova, 1994, pp. 9-22. L'illustrazione a china è di Pino Di Silvestro.

27 giugno 2008

Il fotografo Carlos Freire e l'arte dell'incontro

Dialogo con il fotografo brasiliano Carlos Freire (Rio de Janeiro, 1945; vive a Parigi) e la sua vita itinerante

Salvatore D'Agostino: Una domanda che ho sempre voluto fare ad un fotografo: qual è stata la sua prima macchina fotografica?

Carlos Freire: La mia prima macchina fotografica era una Yashica, una giapponese, era stata comprata da mio padre ed io l’ho usata per tanti anni. Per un periodo non ho fatto fotografie, perché ero giornalista. A ventitré anni ho comprato una Pentax e ho cominciato a fare fotografie; in seguito ho usato una Leica, Canon; e attualmente una Nikon.

SD: Com’è avvenuto il passaggio da giornalista a fotografo?

CF: Il passaggio è stato semplice, io sono venuto in Europa per quattro mesi e per vivere ho fatto una scelta, il giornalista che ho continuato a fare per due anni. Dopo sono passato alla fotografia, perché la fotografia era più vicina, alla mia sensibilità. Scrivere in un’altra lingua è molto complicato, fotografare da un paese all’altro non tanto. Si aggiunga che la mia formazione era da autodidatta, la formazione di una persona che andava per musei per vedere la pittura. Inoltre, a Rio De Janeiro, avevo poi un cineclub dove ho visto tutti i film di Bergamn, Rossellini, Pasolini, Visconti, Antonioni e questo mi ha molto impressionato.

SD: I suoi primi reportage?

CF: Il primo, Stati Uniti 1973 a Miami in Florida, è stato fotografare una convention repubblicana all’interno di un impianto sportivo di Richard Nixon.
In seguito ho seguito tutta la contestazione, tutto quello che era contro Nixon Quella è stata la mia prima volontà di scrivere qualcosa con la luce, con la forma e con l’evento, in quel caso con l’evento.

SD: Vedendo la sua mostra, ho percepito l’aurea di alcuni fotografi come
Robert Capa, Henri-Cartier Bresson che hanno avuto un rapporto sociale con la fotografia, lei si ci ritrova come compagno di viaggio?

CF: Non sono in questa compagnia perché sono bravissimi e grandissimi fotografi, no. Io penso che il mio progetto, la mia traiettoria è singolare perché ho fatto i conti con le persone che ho conosciuto che non sono celebrità, ma gente con talento e valori riconosciuti. Ho avuto la possibilità di fare questi ritratti di gente e di luoghi.

SD: La fotografia che mi ha colpito è il ritratto di Samuel Beckett, credo che racconti il carattere della sua opera. Lo ha mai incontrato?

CF: I tre incontri avuti con Beckett erano sempre quasi silenziosi, lui parlava pochissimo, ma gli piaceva il fatto che ero brasiliano e che potevo raccontare qualcosa del Brasile. Per me la sua era una presenza più intellettuale. Lui era come un santo. Fuori da ogni movimento letterario e dai saloni letterali. Era sempre concentrato nel suo lavoro e la sua visione del mondo.

SD: Che cosa rappresenta per lei la fotografia?

CF: Per me la fotografia è la volontà d’incontrare l’altro, di vedere dove vive, il suo paese, la sua cultura. Come quando sono andato ad
Aleppo in Siria per fare un libro con il poeta Adonis e ho visto questa civilizzazione della Mesopotania che è straordinaria. Lo stesso quando sono andato in Egitto, in Alessandria, in Giappone a Genova, in Sicilia, a Napoli, è sempre un preteso per vedere e vivere con questa gente che ha lo stesso Dio.

SD: Negli ultimi due anni sta facendo un lavoro in Sicilia. Che cosa le sta raccontando quest’isola?

CF: Io non racconto niente, io vedo e scatto la fotografia, il resto spetta a voi che vedete che guardate le mie fotografie. Nella mostra ci sono dieci fotografie ambientate in Sicilia: la processione dei misteri di Trapani; un paesaggio di Trapani; la festa di San Paolo a Palazzolo Acreide; una giovane madre di quattordici anni a Palermo che mi ha colpito perché era una bambina già con una figlia; un tramonto a Segesta; un paesaggio di Morgantina con due anziani; Lucca Sicula; Cefalù; le catacombe dei Cappuccini a Palermo. Queste sono visioni, ma non racconti. La Sicilia è un paese ricchissimo di cultura, di tradizione, di modernità, e il popolo siciliano è un popolo che è stato invaso e conquistato da spagnoli, arabi, francesi, greci, romani, tutti sono stati qui, e da queste unioni di culture diverse, da queste stratificazioni è nato un popolo che oggi ha una cultura mediterranea ricchissima. Io non posso venire qui e dire: vado a fare un libro sulla Sicilia. Non si può. Il mio intento è dare una visione poetica di questo paese.

SD: Il suo approccio non è…

CF: E’ irrazionale. Non si può essere razionali, accademici, nel mio libro con Vincenzo Consolo non c’è e non si trova un riassunto della storia siciliana.

SD: Ci racconta l’incontro con Vincenzo Consolo?

CF: E’ avvenuto a Parigi da un amico che si chiama
Fortunato Tramuta proprietario della più importante libreria italiana a Parigi, che si chiama Tour de Babel. Lui mi ha fatto incontrare il suo amico Vincenzo Consolo, perché sapeva che io volevo fare un libro sulla Sicilia e così è nato il progetto, questo tre anni fa.

SD: Lei ama incontrare la gente che secondo lei hanno uno spessore, un ‘valore’: Marguerite Yourcenar, Roland Barthes, Francis Bacon, Orson Welles e tant’altri. Lei vive a Parigi, ma dove sono avvenuti questi incontri?

CF: Francis Bacon a Londra, Marguerite Yourcenar a Londra, ma sono andato anche a trovarla negli Stati Uniti e vista a Parigi, Bill Brandt a Londra, André Kertèsz a New York a casa sua, Tina Modotti a casa sua. Io sono andato da tutte le parti. Parigi è il mio centro di partenza, il chilometro zero. Da lì parto verso la Siria, l’Egitto, il Giappone per ritornare sempre nel mio chilometro zero.

SD: Essendo brasiliano lei ha vissuto l’evento della costruzione e inaugurazione della capitale ‘
Brasilia’?

CF: Sono nato a Rio De Janeiro, ma non ho vissuto in Brasile. Sono andato via quarant’anni fa. Quando ‘Brasilia’ è nata io ero giovanissimo, ho visto l’inaugurazione in televisione. Una meraviglia.

SD: In seguito lei ha incontrato Lucio Costa e Oscar Niemeyer?

CF: Io sono andato a vedere Brasilia troppo tardi, nel 1996, era già una città di 36 anni. Io la trovo molto bella, piena di verde, alberi, un lago, tanti piccoli laghetti e una vegetazione magnifica che creano un microclima perfetto per la salute. La gente che vive lì non vuole vivere da nessun’altra parte. Quelli che sono nati in ‘Brasilia’ vivono benissimo lì. Quando ho incontrato Oscar Niemeyer gli ho chiesto se le trasformazioni recenti in alcune opere come il Ministero degli Affari Stranieri potevano aver danneggiato la sua opera, lui mi ha risposto di no perché gli hanno chiesto l’autorizzazione prima, e poi sotto i suoi consigli, hanno fatto i cambiamenti.
Con Lucio Costa ho parlato moltissimo della sua relazione con Le Corbusier, perché lui era molto amico di Le Corbusier, è stato lui che ha trasportato il corpo di Le Corbusier, quando è morto, da Toulon verso Parigi.

SD: Vi è un contrasto evidente tra Brasilia e le città brasiliane?

CF: Non credo. L’architettura di
San Paolo è più bella di quella di New York è un condensato di tutta l’architettura brasiliana e del lavoro dei più grandi architetti del mondo. Esiste un problema politico nelle città. Una città che non può dare lavoro è un problema politico che condiziona la bellezza dell’architettura, ma al centro di San Paolo, l’architettura è straordinaria. Quella di Rio De Janeiro è un po’ più caotica, perché da città balneare è stata trasformata in città di affari. Ad esempio Curitibia, capitale dello stato del Paranà, è bellissima, hanno posto l’ecologia al servizio dell’uomo. La bellezza dell’architettura brasiliana è indubbia, quello che è grave è la povertà e la differenza sociale che noti quando vai a vedere una favelas vicino a un bellissimo palazzo. Sono tutti vicini. Ma questo non è un affare d’architetti. Ho parlato con Renzo Piano a Genova, che voleva eliminare l’orrore della sopraelevata che taglia tutto il centro storico con una strada sotterranea, ma non è la volontà di un architetto che può cambiare le cose, perché quello che l’ha fatto è un politico.

SD: C’è ancora la possibilità di avere un’idea politica che possa aiutare sistemi più degradati e marginali come potrebbero essere alcune aree della Sicilia, alcune zone di Rio de Janeiro o di altre metropoli/megalopoli?

CF: Non è la mia competenza, sinceramente, come essere umano posso vedere le ingiustizie, ma il mio campo di azione è la fotografia, non ho formazione economica o politica. Io sono nato a Rio, ho vissuto negli ambienti culturali, non economici o politici, non posso rispondere.

SD: Lei ha incontrato negl’anni settanta, il giovane Renzo Piano a Parigi autore con Richard Rogers del
Centre Pompidou in un’area densa e degradata. Il museo era stato molto contestato come la torre Eiffel nel 1889. Adesso per Parigi è un luogo simbolo. Ci può parlare dell’incontro?

CF: Oggi è un posto molto importante vengono a visitarlo da tutto il mondo. Renzo Piano l’ho conosciuto nel 1978, aveva lavorato dal 1975 al 1977 alla costruzione del suo progetto con Richard Rogers. Aveva un piccolo studio a Parigi di 45 mq da dove lentamente è diventato uno dei più bravi architetti di ‘Architettura umana’ al mondo. Il Centre Pompidou all’inizio nessuno lo comprendeva, pensavano che fosse una stravaganza, non volevano costruirlo, oggi è totalmente integrato alla città . Questa è una visone che appartiene ai grandi talenti, vedono le cose e la loro necessità prima degli altri. Oggi il Centre De Pompidou ha trent’anni e si vede che è un posto importante, non si può andare a Parigi e non vedere il Centre Pompidou.

SD: Tra le tante città che ha visto, quali sono quelle che le hanno raccontato qualcosa?
CF: Sono molte le città che mi hanno colpito: Kyoto, in Giappone, è una città silenziosa, almeno nella zona storica, dove si possono ascoltare gli uccelli,il rumore della pioggia e dove le case sono di legno antico; Aleppo, in Siria, dove c’è un suk di undici chilometri di labirinti coperti dove vendono di tutto e questo nessuno lo sa ed è lì, c’è anche una cittadella che è una roccaforte costruita nel dodicesimo secolo dai Normanni e per me è una città magica; Rio de Janeiro, la mia città, ha una bellezza geofisica dove trovi la montagna, il mare, il cielo, la selva, una fauna lussureggiante, ciò che vedi dal monte Pan di Zucchero o dal Cristo Redentore è una meraviglia; mi ha colpito Palermo, Napoli, Lucca Sicula, un piccolo borgo siciliano, Leonforte, mi piace la struttura civica, dove trovo un conforto fisico,inteso come relazione con l’architettura e il paesaggio che incontro, e un conforto mentale, perché se sei stressato da una città non puoi viverla bene. Io mi sento bene a Rio, ma non a Bangkok. Altre città sono: Roma; Arezzo, piccola, ma bella; Genova, con un centro diverso dalle altre città italiane, non ci sono piazze, è più compatta, posta di fronte al mare, poggiata sulla montagna in prossimità delle ‘Cinque Terre’; Napoli, dove sono stato in compagnia di Cesare De Seta, un grande architetto che ha scritto un testo per un piccolo libro che abbiamo fatto insieme ‘Napoli, il reame della gente’, parlando con lui ho potuto conoscere zone di Napoli che altrimenti non avrei conosciuto; il Monte Athos, in Grecia, ha un’architettura unica, ci sono monasteri costruiti nel 700-1000 a.C., con una tecnologia che tuttora ci meraviglia.

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“La vita è l’arte dell’incontro”. La frase del poeta brasiliano Vinicius de Moraes potrebbe essere il sottotitolo della mostra del connazionale Freire. Per la prima volta in Italia... ...continua a leggere la mia recensione su Exibart

Pubblicato nella rubrica 'conversazioni' della presS/Tletter