Leggi le altre puntate del Corso di blog: La storia, L'attrezzatura, I contenuti e Per chi si scrive?
Prima dell’intervista a Joseph Grima,* una parentesi: pubblico l’ultima puntata del ciclo Blogging 101 di Geoff Manaugh sui blog e l’architettura, ospitato in questi ultimi mesi sulla rivista Abitare.
Rivista che ha recentemente cambiato direttore: a Stefano Boeri infatti è subentrato Mario Piazza, con un primo e curioso ‘non editoriale’1 mi ricorda questa frase di Walter Benjamin:
«Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ricca di spirito. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli.»2
di Geoff Manaugh*
Questa serie in cinque parti sul mondo dei blog d’architettura e design oggi si conclude qui con uno sguardo d’anticipo al futuro del blogging: questa volta vedremo in che direzione andranno i blog e quali sono i rischi di divisione interna da evitare; cercheremo perfino di capire se il blogging abbia o meno un futuro. In un certo senso, è un momento anomalo per fare previsioni; dopo tutto, parlare del futuro del blogging sottintende che ci sia un futuro per i blog. Eppure in realtà il blog tradizionale sembra essere sul punto di scomparire. La mia definizione di blog tradizionale è la seguente: un sito i cui contenuti sono pubblicati in ordine cronologico inverso, organizzati secondo una griglia tematica più o meno coerente e scritti da un numero limitato di autori, spesso solo uno.
Oggi si può arrivare ad affermare che i blog siano una forma in via di estinzione. Tuttavia, come vedremo più avanti, non è detto che questa profezia così apertamente pessimistica debba avverarsi. Prima di tutto, bisogna prendere in considerazione due tendenze in apparenza inarrestabili che negli ultimi anni hanno trasformato radicalmente diversi aspetti dei blog, come la maniera in cui vengono scritti, gli autori che li scrivono, le aspettative del pubblico dei lettori e il ruolo che i blog ricoprono nel panorama globale dei mezzi di comunicazione.
Una di queste nuove tendenze è la proliferazione di servizi di micro-blogging e applicazioni simili, come Twitter, Tumblr, Posterous, e perfino Instagram. Ironicamente, tutti questi servizi incoraggiano – in realtà praticamente incentivano – la composizione di contenuti in forma ridotta. Per esempio, il limite di 140 caratteri imposto da Twitter consente a chi scrive giusto lo spazio minimo per descrivere un link che sta per essere condiviso con il lettore. Difficile immaginare di riuscire a trovare lo spazio sufficiente per offrire analisi e interpretazioni originali. E se non c’è niente di fondamentalmente sbagliato – io stesso uso Twitter con grande entusiasmo – non si può negare che vi sia anche un aspetto potenzialmente negativo in questa tendenza. Twitter ha reso la condivisione di link talmente semplice, senza alcun bisogno di sviluppare commenti critici, che tanti scrittori in un certo senso si sono da soli privati di possibili post da pubblicare sui loro blog. Piuttosto, numerosi scrittori adesso si accontentano dell’istantanea gratificazione di un’immediata condivisione in Twitter. Sul sito di micro-blogging, infatti, si possono condividere contenuti e link senza bisogno di mantenere un sito personale.
In altre parole, il canale di Twitter di un autore si trova spesso a essere in competizione con il suo stesso blog. La stessa cosa, anche se l’effetto è meno radicale, si può dire di nuovi servizi di condivisione di immagini, come Twitpic o Instagram. Dopo tutto, perché scrivere un intero post sul blog per spiegare dove ci troviamo, come ci siamo arrivati, perché il soggetto che stiamo fotografando è interessante, o addirittura il motivo stesso dell’atto di andare e fotografare, quando basta caricare una foto, metterci una didascalia spiritosa e aspettare che gli amici clicchino “mi piace”?
Ma allora, vale davvero la pena di mettersi a lavorare?
Com'è ovvio, perseverando in questa attitudine aggressivamente negativa verso i nuovi servizi di micro-blogging, se ne perderebbero di vista l’utilità sociale e il valore intellettuale; il punto principale del discorso, tuttavia, resta valido. Adesso è così facile non bloggare che molti autori, che anche solo due anni fa avrebbero iniziato un loro blog personale con cui costruirsi un pubblico, semplicemente mettono in circolazione cose attraverso Twitter, un servizio che è notoriamente difficilissimo da archiviare. Questa è una decisione che a lungo termine potrebbe impedire allo scrittore di raggiungere il riconoscimento o il successo che pensava di star coltivando. In tutti questi casi la strategia vincente sembra essere quella della minore resistenza.
Un altro evento che ha cambiato ancor più radicalmente la natura dei blog oggi è che essi come forma sono stati assorbiti da quelli che io genericamente chiamo “media commerciali”. Anche se varrebbe la pena di ripetere che i blog gestiti da riviste, quotidiani, istituzioni accademiche e aziende private in realtà non sono blog nel vero senso della parola, questa è forse alla fine solo una questione di lana caprina. Oggi sembra che proprio qualsiasi cosa scritta in Internet debba essere considerata un blog; la differenza fra blog, siti e altre forme di pubblicazione in rete è stata purtroppo completamente erosa. I blog ora vengono scritti sempre meno da singoli critici o appassionati e sempre più da gruppi di semi-professionisti che vengono pagati per questo loro lavoro svolto per grandi compagnie o pubblicazioni – The New York Times, The Guardian, The Wall Street Journal, USA Network, The Atlantic, Forbes. I blog vengono trattati nel contesto delle grandi holding di comunicazione come strumento di promozione e relazioni pubbliche. Nel corso del tempo, questo indebolirà il ruolo culturale dei blog, neutralizzandone il vero potere critico e rendendo risibile la loro pretesa di dare voce a chi altrimenti è condannato al silenzio.
Bisognerebbe invece apprezzare con convinzione e senza ironia la capacità del blog di non avere legami con le istituzioni dominanti; in un certo senso, è proprio questo il loro vero valore e il loro scopo. Il blogging – ovvero il rendere pubbliche annotazioni su argomenti che per noi e i nostri lettori hanno un certo interesse – sarà sempre utile fin quando esisterà Internet. Inoltre, i blog devono necessariamente fondarsi su quei contenuti prodotti d’impulso ed essere organizzati in maniera casuale e affascinante per cui a ragione sono divenuti famosi (e per cui in molti circoli sono stati ridicolizzati e presi in poca considerazione). I blog non hanno bisogno di grandi budget e connessioni ufficiali con i grandi media; hanno solo bisogno di persone che vogliono condividere con il mondo l’entusiasmo delle cose di cui sono appassionate.
Inoltre, bisogna anche tener presente che i blog hanno una utilità tattica che non verrà mai meno, un futuro molto più diretto. In una recente intervista con gli architetti Mason White e Lola Sheppard di Lateral Office, con sede a Toronto, i due mi hanno parlato del loro blog InfraNet Lab, scritto in collaborazione con Neeraj Bhatia e Maya Przybylski. InfraNet Lab funziona come un catalogo aperto di progetti futuri: luoghi possibili, problemi, materiali e perfino clienti con i quali non c’è ancora un’intesa su come procedere. Il blog serve, in modo essenziale, a organizzare in maniera silenziosa i pensieri degli architetti, aiutandoli a prendere decisioni verso una certa interpretazione o una determinata soluzione, per quanto aleatorio questo processo possa essere. Il blog va formandosi per accrescimento ed è strategicamente incompleto.
Il blog da un lato e la pratica dell’architettura dall'altro possono così essere usati in sinergia facendo uso delle loro particolari competenze; ognuna delle due forme può essere utilizzata per raggiungere i propri specifici obiettivi. Non dovrebbe sorprendere che i blog possano essere utilizzati in questo modo. In realtà, si può dire che il futuro del blogging risiede in quello che è sempre stato il suo passato, ma senza glamour o eccessive aspettative, senza l’esuberanza irrazionale che una volta arrivava a far dire che i blog avrebbero reso obsolete le università, rimpiazzato intere reti di redattori con i loro campi di specializzazione ed eliminato intere industrie culturali. Queste affermazioni gonfiate e deliranti sul potere del blogging hanno reso un torto alla genuina utilità dei blog, e hanno contribuito a quella commercializzazione del blogging che ho prima descritto.
Quello che i blog oggi devono evitare, se si vuole che abbiano un ruolo davvero interessante nel panorama dei media, è di diventare una semplice ed equivoca estensione dei servizi di pubbliche relazioni aziendali. Allo stesso tempo, il blogging non deve mai perdere il suo taglio impulsivo, di ricerca, eternamente incompleto, che vede l’autore del blog impegnato in un processo di assoluta scoperta insieme al lettore. Un’altra cosa di cui il blogging non ha bisogno, se vuole sopravvivere in una forma utile, sono le superficiali e maliziose esortazioni a essere “più cattivi”, come ha scritto almeno un critico – in pratica guardandosi a vicenda in cagnesco sempre e in ogni contesto – come se l’aggressione e l’offensiva retorica fossero le sole a rendere il dialogo in rete interessante. Non la poesia, non le nuove idee e le prospettive innovative sulla spazialità umana, e nemmeno la meravigliosa ingegnosità del pensiero architettonico. Il blogging dovrebbe invece ergersi al di sopra di questa litigiosità infantile e concentrarsi su obiettivi più ambiziosi.
In fin dei conti, comunque la si voglia vedere, la sopravvivenza del blogging non è assolutamente garantita. Molti preferirebbero vedere i blog addomesticati, trasformati in un sistema pubblicitario camuffato. Altri vorrebbero vedere i blog sostituiti dallo stesso genere di discorso specialistico che si trova nelle pubblicazioni accademiche (proprio quelle da cui i blogger e i loro lettori cercavano da scappare in origine). Il futuro del blogging d’architettura e design dovrebbe:
Una di queste nuove tendenze è la proliferazione di servizi di micro-blogging e applicazioni simili, come Twitter, Tumblr, Posterous, e perfino Instagram. Ironicamente, tutti questi servizi incoraggiano – in realtà praticamente incentivano – la composizione di contenuti in forma ridotta. Per esempio, il limite di 140 caratteri imposto da Twitter consente a chi scrive giusto lo spazio minimo per descrivere un link che sta per essere condiviso con il lettore. Difficile immaginare di riuscire a trovare lo spazio sufficiente per offrire analisi e interpretazioni originali. E se non c’è niente di fondamentalmente sbagliato – io stesso uso Twitter con grande entusiasmo – non si può negare che vi sia anche un aspetto potenzialmente negativo in questa tendenza. Twitter ha reso la condivisione di link talmente semplice, senza alcun bisogno di sviluppare commenti critici, che tanti scrittori in un certo senso si sono da soli privati di possibili post da pubblicare sui loro blog. Piuttosto, numerosi scrittori adesso si accontentano dell’istantanea gratificazione di un’immediata condivisione in Twitter. Sul sito di micro-blogging, infatti, si possono condividere contenuti e link senza bisogno di mantenere un sito personale.
In altre parole, il canale di Twitter di un autore si trova spesso a essere in competizione con il suo stesso blog. La stessa cosa, anche se l’effetto è meno radicale, si può dire di nuovi servizi di condivisione di immagini, come Twitpic o Instagram. Dopo tutto, perché scrivere un intero post sul blog per spiegare dove ci troviamo, come ci siamo arrivati, perché il soggetto che stiamo fotografando è interessante, o addirittura il motivo stesso dell’atto di andare e fotografare, quando basta caricare una foto, metterci una didascalia spiritosa e aspettare che gli amici clicchino “mi piace”?
Ma allora, vale davvero la pena di mettersi a lavorare?
Com'è ovvio, perseverando in questa attitudine aggressivamente negativa verso i nuovi servizi di micro-blogging, se ne perderebbero di vista l’utilità sociale e il valore intellettuale; il punto principale del discorso, tuttavia, resta valido. Adesso è così facile non bloggare che molti autori, che anche solo due anni fa avrebbero iniziato un loro blog personale con cui costruirsi un pubblico, semplicemente mettono in circolazione cose attraverso Twitter, un servizio che è notoriamente difficilissimo da archiviare. Questa è una decisione che a lungo termine potrebbe impedire allo scrittore di raggiungere il riconoscimento o il successo che pensava di star coltivando. In tutti questi casi la strategia vincente sembra essere quella della minore resistenza.
Un altro evento che ha cambiato ancor più radicalmente la natura dei blog oggi è che essi come forma sono stati assorbiti da quelli che io genericamente chiamo “media commerciali”. Anche se varrebbe la pena di ripetere che i blog gestiti da riviste, quotidiani, istituzioni accademiche e aziende private in realtà non sono blog nel vero senso della parola, questa è forse alla fine solo una questione di lana caprina. Oggi sembra che proprio qualsiasi cosa scritta in Internet debba essere considerata un blog; la differenza fra blog, siti e altre forme di pubblicazione in rete è stata purtroppo completamente erosa. I blog ora vengono scritti sempre meno da singoli critici o appassionati e sempre più da gruppi di semi-professionisti che vengono pagati per questo loro lavoro svolto per grandi compagnie o pubblicazioni – The New York Times, The Guardian, The Wall Street Journal, USA Network, The Atlantic, Forbes. I blog vengono trattati nel contesto delle grandi holding di comunicazione come strumento di promozione e relazioni pubbliche. Nel corso del tempo, questo indebolirà il ruolo culturale dei blog, neutralizzandone il vero potere critico e rendendo risibile la loro pretesa di dare voce a chi altrimenti è condannato al silenzio.
Bisognerebbe invece apprezzare con convinzione e senza ironia la capacità del blog di non avere legami con le istituzioni dominanti; in un certo senso, è proprio questo il loro vero valore e il loro scopo. Il blogging – ovvero il rendere pubbliche annotazioni su argomenti che per noi e i nostri lettori hanno un certo interesse – sarà sempre utile fin quando esisterà Internet. Inoltre, i blog devono necessariamente fondarsi su quei contenuti prodotti d’impulso ed essere organizzati in maniera casuale e affascinante per cui a ragione sono divenuti famosi (e per cui in molti circoli sono stati ridicolizzati e presi in poca considerazione). I blog non hanno bisogno di grandi budget e connessioni ufficiali con i grandi media; hanno solo bisogno di persone che vogliono condividere con il mondo l’entusiasmo delle cose di cui sono appassionate.
Inoltre, bisogna anche tener presente che i blog hanno una utilità tattica che non verrà mai meno, un futuro molto più diretto. In una recente intervista con gli architetti Mason White e Lola Sheppard di Lateral Office, con sede a Toronto, i due mi hanno parlato del loro blog InfraNet Lab, scritto in collaborazione con Neeraj Bhatia e Maya Przybylski. InfraNet Lab funziona come un catalogo aperto di progetti futuri: luoghi possibili, problemi, materiali e perfino clienti con i quali non c’è ancora un’intesa su come procedere. Il blog serve, in modo essenziale, a organizzare in maniera silenziosa i pensieri degli architetti, aiutandoli a prendere decisioni verso una certa interpretazione o una determinata soluzione, per quanto aleatorio questo processo possa essere. Il blog va formandosi per accrescimento ed è strategicamente incompleto.
Il blog da un lato e la pratica dell’architettura dall'altro possono così essere usati in sinergia facendo uso delle loro particolari competenze; ognuna delle due forme può essere utilizzata per raggiungere i propri specifici obiettivi. Non dovrebbe sorprendere che i blog possano essere utilizzati in questo modo. In realtà, si può dire che il futuro del blogging risiede in quello che è sempre stato il suo passato, ma senza glamour o eccessive aspettative, senza l’esuberanza irrazionale che una volta arrivava a far dire che i blog avrebbero reso obsolete le università, rimpiazzato intere reti di redattori con i loro campi di specializzazione ed eliminato intere industrie culturali. Queste affermazioni gonfiate e deliranti sul potere del blogging hanno reso un torto alla genuina utilità dei blog, e hanno contribuito a quella commercializzazione del blogging che ho prima descritto.
Quello che i blog oggi devono evitare, se si vuole che abbiano un ruolo davvero interessante nel panorama dei media, è di diventare una semplice ed equivoca estensione dei servizi di pubbliche relazioni aziendali. Allo stesso tempo, il blogging non deve mai perdere il suo taglio impulsivo, di ricerca, eternamente incompleto, che vede l’autore del blog impegnato in un processo di assoluta scoperta insieme al lettore. Un’altra cosa di cui il blogging non ha bisogno, se vuole sopravvivere in una forma utile, sono le superficiali e maliziose esortazioni a essere “più cattivi”, come ha scritto almeno un critico – in pratica guardandosi a vicenda in cagnesco sempre e in ogni contesto – come se l’aggressione e l’offensiva retorica fossero le sole a rendere il dialogo in rete interessante. Non la poesia, non le nuove idee e le prospettive innovative sulla spazialità umana, e nemmeno la meravigliosa ingegnosità del pensiero architettonico. Il blogging dovrebbe invece ergersi al di sopra di questa litigiosità infantile e concentrarsi su obiettivi più ambiziosi.
In fin dei conti, comunque la si voglia vedere, la sopravvivenza del blogging non è assolutamente garantita. Molti preferirebbero vedere i blog addomesticati, trasformati in un sistema pubblicitario camuffato. Altri vorrebbero vedere i blog sostituiti dallo stesso genere di discorso specialistico che si trova nelle pubblicazioni accademiche (proprio quelle da cui i blogger e i loro lettori cercavano da scappare in origine). Il futuro del blogging d’architettura e design dovrebbe:
1) rendere la cultura popolare più interessante introducendo idee di confine a nuove, più ampie platee, facendo così da ponte fra il centro e la periferia;
2) sintetizzare idee da campi in apparenza lontani fra loro e così facendo;
3) unire scrittori, designer, clienti, pubblico dei lettori e altri professionisti di diversa formazione e provenienza geografica intorno a comuni temi di discussione e interesse.Nel contempo, il blogging dovrebbe riuscire a perseguire nel suo futuro l’obiettivo politico di cambiare il tipo di conversazioni che hanno luogo nell'ambito dell’architettura e del design, aprire queste discussioni a nuovi partecipanti e, infine, ampliare le modalità di divulgazione dei risultati di questi scambi. Questi sono obiettivi ambiziosi, forse perfino utopistici, ma sono necessari per far sì che il blogging abbia davvero un futuro.
19 settembre 2011
Intersezioni ---> MONDOBLOG
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Note:
1 Editoriale di Mario Piazza, Tentativo per non scrivere il mio primo editoriale, Abitare n. 515, settembre 2011*
2 Walter Benjamin, Giorgio Agamben (a cura di), Parigi, capitale del XIX secolo. Progetti appunti e materiali 1927-1940, Giulio Einaudi Editore, 1986, p. 595
Geoff Manaugh, Blogging 101 - La storia Abitare n. 510, marzo 2011, pp. 150-153
Caro Salvatore,
RispondiEliminatrovo interessante il testo di Manaugh perché inserisce la forma "blog" all'interno di un sistema continuamente in evoluzione, un "ecosistema" in cui proliferano nuove creature e le vecchie o soccombono o cambiano forma per sopravvivere.
Quello che sconcerta è l'incredibile velocità di cambiamento, quando sembra che le cose inizino ad assumere dei connotati riconoscibili, quando sembra che una strada si apra fruttifera, tutto cambia in un baleno.
Spesso ci chiediamo che senso abbia ancora oggi avere un blog, scrivere e documentare quando l'attenzione di tutti sembra spostarsi verso piattaforme più leggere e meno impegnative, e ancora non abbiamo nemmeno capito come far funzionare il tutto insieme, ci proviamo giorno per giorno.
Nel testo di Manaugh mi sembra fondamentale sottolineare una cosa non detta: il blog non fa guadagnare un euro.
Probabilemente, guardando l'attività del nostro blogger di riferimento, l'utilità di un blog consente di acquisire una riconoscibilità e un peso mediatico da spendere in altri contesti. Il che mi sembra positivo in quanto sovverte certi filtri d'ingresso imposti dall'accademia/editoria/commercio per poi, comunque, alla fine e quasi paradossalmente, approdare in questi stessi ambiti semplicemente con un'autonomia e una forza contrattuale maggiori.
Vedremo come andrà a finire, per il momento un abbraccio
Rem,
RispondiEliminavorrei partire dalla fine per arrivare sul perché Manaugh non potrebbe mai parlare di blog come tempo perso (non guadagno).
Geoff Manaugh scrive: «Un’altra cosa di cui il blogging non ha bisogno, se vuole sopravvivere in una forma utile, sono le superficiali e maliziose esortazioni a essere “più cattivi”, come ha scritto almeno un critico – in pratica guardandosi a vicenda in cagnesco sempre e in ogni contesto – come se l’aggressione e l’offensiva retorica fossero le sole a rendere il dialogo in rete interessante. Non la poesia, non le nuove idee e le prospettive innovative sulla spazialità umana, e nemmeno la meravigliosa ingegnosità del pensiero architettonico. Il blogging dovrebbe invece ergersi al di sopra di questa litigiosità infantile e concentrarsi su obiettivi più ambiziosi».
Osservando in questi anni il blogging internazionale mi sono accorto che ogni ‘nazione’ utilizza ‘caratterialmente’ la piattaforma di comunicazione.
In pratica riversa la sua ‘identità’ (in senso ampio del termine), ad eccezioni dei blog che si costruiscono un pubblico internazionale, la Francia, l’Inghilterra, il Giappone o gli Stati Uniti hanno i blog che si meritano.
I blog di architettura italiana sono il riflesso della nazione. Si basano spesso sul blog di maggior successo ‘Beppe Grillo’ un comico che spara a zero su tutto con la pretesa di avere ragione su tutto. Francesco Merlo li chiama ‘fantuttoni’.
Sono autocelebrativi (utilizzando spesso la frase ‘il popolo vuole questo’ non io), incapaci di fare azioni concrete (spesso pessimi progettisti), moralisti contro le architetture che non si gradisce (il mi piace non mi piace è una legge critica), estremamente homophiliaci (non accettano i commenti negativi e si fidano degli amici commentatori per aggredire), discutono di ‘luoghi comuni’ e degli stessi luoghi incapaci di osservare ciò che succede sottocasa, ecolaliaci (difficilmente approfondiscono i temi e riportano concetti masticati da altri).
Pochi, pochissimi blogger utilizzano il proprio spazio come ‘Paesaggio teorico’ una sorta di tavolo da disegno (sì sono un romantico) espanso e condiviso con tutti.
Gli italiani amano essere ‘cattivi’ e difficilmente sono propositivi.
Questi blog ‘inani’ (che abbaiano da fermo), ahimè, sono seguiti, molto amati, a discapito dei blog più lenti, propositivi, critici e belli (come il vostro).
Anche se c’è da dire che spesso sono commentati e seguiti sempre dagli stessi, in poche parole si auto alimentano.
Un dato che fa riflettere è il numero dei lettori su google reader:
Archiwatch (un noto incazzato in pigiama che s’ispira a Beppe Grillo parole sue non mie) ha 27 iscritti, AST (voi) 56, Geoff Manaugh 43.315 (mila) iscritti . Cifre, credo significative.
Capisci che Geoff Manaugh non potrebbe mai parlare di blog non economico poiché è seguito in tutto il mondo e scrive per le maggiori riviste di architettura e non solo.
Noi, disgraziatamente, abbiamo una pancia molle ‘banale’ che distrugge tutto, soprattutto i blog più belli.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
ciao Salvatore,
RispondiEliminainnanzitutto, ammetto pubblicamente di essere una capra perché non sono riuscito proprio a capire dove si vedano il numero di sottoscrizioni a google reader, quello che mi dici tu è un dato che proprio non conoscevo...
vabbè, ma son capra io.
Non so tanto se sia la "pancia molle" a rovinare tutto, sinceramente non mi aspetto di essere seguito più di tanto, e, alla fine, è vero, quelli che commentano sono sempre gli stessi, però, c'è un però, sono amici che ho conosciuto tramite il blog, persone che stimo e a cui voglio bene, anche se alcuni non li ho mai visti, altri invece sì e ne sono contentissimo.
Mi ritorna sempre in mente la metafora del bar sotto casa, per me il blog è quello, un momento di pausa per scambiare due chiacchiere, non per polemizzare a tutti i costi o parlare di massimi sistemi.
Forse è questo il carattere "italiano" del blog, il voler essere leggeri e aperti anche ai passanti.
Poi, altra cosa che mi piace nei blog, è che ognuno ci fa quel che vuole, dalla tribuna politica alla riunione condominiale al diario erotico, mi piace questa estrema libertà consentita dalla piattaforma.
E poi, e chiudo, penso che il blog funzioni se è l'incipit di qualcosa, un trampolino per un tuffo nella realtà, non un punto di arrivo.
Ok, non è vero che avevo chiuso perché mi sono ricordato di un'altra cosa: il numero di contatti di Manaugh è il risultato della sua bravura, sicuramente, ma anche del fatto che scriva in inglese, limite con cui noi blogger italiani dobbiamo sempre fare i conti.
Un cordiale saluto
Rem,
RispondiEliminatutti siamo ‘capre-digitali’ (almeno la nostra generazione, ma anche quella di mio figlio perché i suoi insegnanti, ahimè, siamo noi), seleziona un blog nel tuo Google reader e clicca su ‘mostra dettagli’ in alto a destra.
Non volevo apparire ‘definitivo’ e tantomeno parlare dei nostri blog.
I blog, un po’ come i giornali, si caratterizzano per la fidelizzazione (più o meno costante) di alcuni avventori.
Il mio esempio pratico, rifletteva sull’apparenza teorica e immaginaria della rete, i numeri (un tema a me caro per capire le dinamiche ‘vere’ delle interazioni della rete) dicono che il romanaccio prof (trovo le sue strisce molto interessanti) ha pochi lettori tra i blogger e molti lettori ‘amici’ (fedeli) che alimentano molti clic.
Voi AST (ho usato il vostro riferimento per non fare nomi a ‘vanvera’) avete sia un seguito di blogger (poiché il reader è usato spesso solo da blogger) quasi il doppio del mortarchiwatch, sia un seguito di amici.
Mi trovi d’accordo sull’uso indifferenziato dei blog, ben vengano, meno sulla ‘leggerezza’ di molti blogger di architettura in Italia.
Escludendo voi (senza piaggeria) la leggerezza sia nei contenuti sia nei commenti spesso manca, c’è invece quello che sconsiglia Manaugh la tendenza all’esser cattivo, all’alzare la voce per essere seguiti.
I numeri di Manaugh sono vertiginosi ma i nostri (anche se limitati alla sola Italia) sono insignificanti.
Dopo più di dieci anni di blogging in Italia, ci ritroviamo con una blogosfera ‘vuota’ e ‘svuotata’ di contenuti non ‘cattivi’.
Per me WA è una semplice estensione del mio tavolo di disegno.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
grazie per la dritta sul reader
RispondiEliminabeeeeeeeeeeeeeeeee
Ciao Salvatore, ciao @rem,
RispondiEliminadiciamo subito che ci ho messo settimane per ragionarci sopra, perché mi sembra che Geoff Manaugh metta il dito nella piaga e che la lettura dei vostri commenti non possa che fare da detonatore per un cambiamento il cui bisogno avvertivo sotto traccia. Insomma, mi avete fatto prendere coscienza di un problema.
Provo a scarnificare i concetti, citando in modo un po' approssimativo: mi scuserete, ma se non faccio così posto questo commento a Natale.
Secondo Manaugh, il blog tradizionale è minacciato dalla brevità del microblogging (es. Twitter) e dalla voracità inglobante dei media commerciali (blog 'finti'). Il primo punto di resistenza dei blog è la capacità di non avere legami con le istituzioni dominanti.
E qui io ho una prima eccezione: ho sempre pensato che scrivere sotto pseudonimo contribuisse a rafforzare questa indipendenza, ma ora comincio a pensare che il prezzo sia troppo alto.
Altro punto di resistenza, secondo Manaugh: i blog sono scritti da persone che comunicano entusiasmo per ciò che amano.
Seconda eccezione: ho sempre cercato di delimitare il mio entusiasmo ad una specifica cornice di senso, prima il mio Paese, poi la mia città. Invece, più scrivo e più mi rendo conto che in un blog ho bisogno di catalizzare il mio interesse per cose molto diverse tra loro. La paura, tuttavia, è tradire il messaggio di Calvino: scrivere è porre dei vincoli.
Terzo punto di resistenza: il blog è un catalogo aperto di progetti futuri. Credo che Salvatore si riferisca a questo aspetto, quando parla del suo tavolo da disegno.
Qui mi ritrovo in pieno, e cado nella terza eccezione: non riesco a fare del blog un vero tavolo di lavoro se non lo apro ai miei viaggi e, indirettamente - devo ammetterlo - anche al mio lavoro. Allora, ha davvero senso scrivere sotto pseudonimo?
Ancora Manaugh: i blog devono tenersi alla larga dalle relazioni aziendali, conservando il fascino della scoperta ed evitando di essere 'cattivi'.
Quarta eccezione: l'anonimato taglia le relazioni aziendali, ma - ahimè, - sacrifica anche le relazioni extra-aziendali, e seppure non limiti il fascino della scoperta spinge forse ad essere più cattivi. Dopo di che, credo che si debba sempre lavorare sulla linea sottile che separa l'indignazione - sacrosanta, sopratutto qui - dalla violenza verbale. Per quanto mi riguarda, ho sempre trovato utile questo metro: ci si indigna contro fatti specifici, al limite si attacca frontalmente la cultura che li produce, ma mai una singola persona.
Manaugh chiude poi così: non bisogna farsi addomesticare, diventando un sistema pubblicitario camuffato. E poi occorre guardarsi dai passatisti accademici, che in sostanza temono la scomparsa del punto e virgola e la usano come foglia di fico per dire, assai brutalmente, che in quanto chierici dovrebbero essere gli unici ad esercitare ancora il diritto alla parola. Quindi, l'obiettivo è far sì che il medium cambi davvero il messaggio, aprendo ed ampliando le conversazioni stesse e il loro esito.
Morte delle eccezioni e riconoscimento pieno: è un vero programma politico, almeno per il prossimo anno.
(segue)
(riprende)
RispondiEliminaSì, perché come dice @rem a sconcertare davvero è la velocità del cambiamento. Anche se non è vero che il blog non fa guadagnare un euro. Salvatore avrà forse dati più autorevoli della mia memoria, ma sappiamo per certo che ad aprile 2009 gli Americani che si toglievano da vivere grazie al proprio blog erano quasi mezzo milione: una cifra ragguardevole (Mark Penn, "America's Newest Profession: Bloggers for Hire", The Wall Street Journal, April 21st 2009, http://online.wsj.com/article/SB124026415808636575.html).
Il punto è che se poi andiamo a guardare dentro quei dati, si tratta essenzialmente di persone che scrivono recensioni su prodotti tecnologici o su servizi finanziari. E' lì ti vengono dei dubbi: è davvero blogging, oppure è soprattutto pubblicità camuffata, come teme Manaugh? Poi c'è il problema linguistico: avrebbe senso per un Italiano scrivere un blog in inglese? Vi confesso che in passato ho fatto degli esperimenti e la conclusione è che per quanto ci si costruisca una nicchia, la possibilità di condividere le proprie idee con qualcuno è bassa. La legge del minimo sforzo vale in entrambe le direzioni: sia per chi legge, sia per chi scrive. Scrivere in una lingua parlata da circa 60 milioni di persone ha meno mercato che scrivere in una lingua parlata da - pare - 1,5 miliardi di persone. Su questo, @rem, hai indubbiamente ragione.
Sì, mi sono chiesto anche io che senso abbia ancora scrivere un blog. Il succo della storia mi sembra stia proprio nella dimensione relazionale: senza i nostri blog, diversissimi, la nostra conversazione non sarebbe nemmeno cominciata. E poi con Salvatore abbiamo spesso discusso del vero potere di quella che lui giustamente definisce "heresphere" (anziché blogosfera): la pressoché totale assenza di barriere all'ingresso. In Italia, forse, questo è l'unico contesto in cui ciò sia ancora possibile, a meno di volersi accontentare di aprire una bottega da barbiere.
Insomma, per il 2012 sto pensando di darmi due obiettivi: muovere radicalmente verso il "paesaggio teorico" e uscire dall'anonimato, per riconquistare la bellezza delle relazioni in carne ed ossa che la rete inevitabilmente ha bisogno di ricostruire, perché non si può restare 'asociali'. Forse sacrificherò un po' di lirismo - checché Manaugh ne dica per me resta fondamentale - ma almeno un giorno finiremo per bere una birra tutti e tre insieme, magari nel bar di @rem.
Nel frattempo, vi lascio con due spunti di discussione: il primo riguarda la geolocalizzazione. Questo mi sembra davvero il driver su cui puntare per attuare una resistenza cognitiva alla banalità. Il tempo selezionerà sempre i contenuti, e noi dobbiamo lavorare per i 'viaggiatori' in seconda classe di domani.
Il secondo è una provocazione: ma è davvero importante avere molti lettori? Gli uomini, anche quando scrivono, rispondono sempre e solo alla loro coscienza.
If you’re going to try, go all the way. / Otherwise, don’t even start. / If you’re going to try, go all the way. / This could mean losing girlfriends, / wives, relatives, jobs and / maybe your mind. / Go all the way. / It could mean not eating for 3 or 4 days. / It could mean freezing on a park bench. / It could mean jail, / it could mean derision, / mockery, / isolation. / Isolation is the gift, / all the others are a test of your / endurance, of / how much you really want to / do it. / And you’ll do it / despite rejection and the worst odds / and it will be better than / anything else / you can imagine. / If you’re going to try, / go all the way. / There is no other feeling like / that. / You will be alone with the gods / and the nights will flame with / fire. / Do it, do it, do it. / Do it. / All the way / All the way. / You will ride life straight to / perfect laughter, its / the only good fight / there is.
(Charles Bukowski, "Roll the Dice")
@HBP
RispondiEliminale questioni che metti in campo sono tante, ho bisogno di un po' di tempo per elaborare una risposta. Nel frattempo volevo solo dirti che leggere le tue parole, sia quando sono sincopate ed emotivamente violente sul tuo blog, sia quando sono così pacate e riflessive come in questi tuoi commenti, ha per me un effetto equiparabile all'aria che entra in una stanza chiusa troppo a lungo (che poi è il mio cervello)
Hassan,
RispondiEliminabenvenuti i commenti meditati e fuori tempo (non ho mai capito perché i commenti del post scadano).
Tantissimi punti, ne sviluppo uno, partendo da un libro a me molto caro: Terra Matta di Vincenzo Rabito (scopro adesso che esiste una pagina su wikipedia qui).
Vincenzo Rabito era un semi analfabeta che ha scritto la storia della sua vita inventandosi una lingua. Tralascio la vicenda del libro molto interessante.
Ciò che emerge dal suo racconto, senza alambicchi linguistici, è la maturale schiavitù (riverenza) di quest’uomo del sud nei confronti dei potenti.
Per ‘procacciarsi’ il cibo sa che deve bussare alla porta dei potenti.
Semplificando (ovvio è un tema complesso) l’inconsistenza sia ‘dei grandi numeri’ sia ‘economica’ dei blogger credo che dipenda dalla mancanza di libertà civica.
Il mainstream generalista (i media tradizionali), anche nelle versioni on-line, si preferisce alle voci indipendenti.
La figura di X che scrive su un blog non è vista come l’autore X ma come ‘poco autorevole perché libero di scrivere ciò che vuole’.
Un blogger nell’immaginario collettivo è un perditempo, un non autore, un buono a nulla (il blog di Grillo ha contribuito moltissimo a traghettare i blog italiani verso la deriva dei cattivi inani).
Per lo statunitense Manaugh – culturalmente - l’indipendenza dal mainstream generalista è un valore da tutelare a tutti i costi.
Noi italiani, come Vicenzo Rabito, siamo culturalmente dipendenti dall’autorevolezza, la libertà non è ‘cosa nostra’.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
P.S.: seguirò il tuo cambiamento di rotta
Rem,
RispondiEliminaposso sottoscrivere ciò che dici nei riguardi di ‘Hassan’?
Saluti,
Salvatore D’Agostino